Stazione di Pau, Francia, una domenica d’Agosto. La biglietteria è deserta.
Poso il pesante zaino nero sul pavimento. Fuori la luce del primo pomeriggio è abbagliante, l’aria calda.
Pau sembra una città fantasma: i negozi chiusi, le strade vuote.
Un altro treno e un pulmino giallo un po’ sgangherato ci portano nel parco nazionale dei Pirenei: siamo in riva al lago di Bious Artigues, ai piedi del Pic du Midi d’Ossau.
Zaino in spalla, muoviamo il primo passo sulla strada sterrata, poi un altro: ce ne vorranno ancora molti per arrivare fino a Gavarnie. Attraversiamo un ampio prato; le voci dei turisti e lo scampanare delle vacche al pascolo ci seguono per svanire poco a poco lungo la salita.
Il sentiero è ripido, il sole brucia nel cielo di un blu intenso; sudiamo copiosamente sotto lo sguardo di pietra del Pic du Midi. Una breve pausa rinfrescante presso uno specchio d’acqua e ripartiamo.
È quasi sera quando, ansimanti, raggiungiamo il passo. Siamo soli con il vento sulla linea di confine fra luce e ombra, circondati dal cielo.
La cena al rifugio Pombie è una piccola babele: ogni tavolo una lingua diversa, dal nostro italiano al fiammingo di un nutrito gruppo di belgi; francese e spagnolo si mescolano liberamente senza riguardo per il vicino confine. Brindiamo al cammino appena iniziato con una coppia di francesi e una bottiglia di vino Madiran.
“Sedicimilaseicentottantaquattro” dice Patrizia.
Sorride. In mano ha un contapassi.
Una luce. Buio. Ancora luce. Dev’essere qualcuno fuori con una torcia… Mi sveglio, esco dalla tenda. No, non sono torce.
In silenzio, senza farsi annunciare dal rombo dei tuoni, un temporale estivo è arrivato sulla valle vicina. Controllo i tiranti, torno nel mio sacco a pelo. Inizia il tic-tac discreto delle prime gocce.
Poi d’improvviso non più gocce ma secchi d’acqua si rovesciano sul telo della tenda. Il prato diventa una palude. Il cielo si accende di bianco, il Pic du Midi una massa nera al suo centro.
Al mattino un pallido sole illumina il cielo grigio. Non piove più.
Iniziamo la discesa dietro a un gruppo di turisti a dorso di mulo; ci lasceranno presto per riscendere al lago. Il sole torna a splendere quando iniziamo a salire la valle d’Arrious: avanziamo lentamente nelle ore più calde della giornata, un passo dopo l’altro sotto il peso degli zaini e lo sguardo distrattamente interessato degli avvoltoi.
Oltre la valle, nascosto in una piega delle montagne, il minuscolo rifugio Arremoulit fa pensare agli esploratori di fine Ottocento. Ci stringiamo intorno alla piccola tavola con l’amico del Madiran e il gruppo di Belgi, che sembrano essere raddoppiati di numero.
Tutti gli occhi sono ovviamente puntati su Patrizia: le versiamo un bicchiere di vino e attendiamo il verdetto -a quanto pare, il pedometro funziona solo se sufficientemente rifornito di alcol: 25.442.
Siamo nel cuore di pietra dei Pirenei: un laghetto incastonato nella roccia, una pietraia scoscesa, chiazze di neve dimenticate dall’inverno. Il gruppo dei belgi compare per un istante tra le nuvole in cima al Col du Palas.
Questo è uno dei due valichi che portano in terra di Spagna: pernotteremo al rifugio Respumoso, il cui nome continua a farmi pensare in maniera tanto illogica quanto irresistibile a una mousse al limone.
La carta dei sentieri francese ignora platealmente tutto ciò che si trova a sud del confine; quella spagnola, in compenso, riporta il terreno in maniera piuttosto fantasiosa e in scala arbitraria. La discesa dal passo diventa quindi una sfida a dare un senso nella nebbia alla profusione di omini di pietra sparsi in tutte le direzioni in mezzo a un mare di roccia.
Le nuvole si diradano scoprendo le pendici del Balaitous. Dopo un altro tratto in discesa il sentiero risale fino al lago artificiale e al rifugio Respumoso, dove ci concediamo il lusso di un panino e una birra.
Come sarebbe a dire “non abbiamo mousse al limone”.
Si fa sera, l’aria è fresca.
Continuano ad arrivare gruppi di ragazzi, ammucchiano zaini e scarponi all’ingresso del rifugio, si fermano ad ammirare il tramonto. Chi si accende una sigaretta, chi scherza con il compagno che arriva per ultimo, stanco e sudato.
Il sole scende dietro le montagne. In fondo alla vallata i Picos de l’Infierno sono artigli conficcati nelle nuvole nere.
Il sole torna al mattino e illumina di un verde brillante i prati di Campoplano. Una distesa di cirrocumuli copre l’intera volta celeste.
Iniziamo a salire. Il sentiero a tratti scompare fra la pietra di un bianco accecante e i depositi di neve sopravvissuti all’estate.
Aggiriamo un costone, poi un altro. Il Col de Cambalès in alto, lontanissimo in cima a un’interminabile serie di zig-zag che si arrampicano su un ghiaione quasi verticale.
Al passo c’è una coppia di francesi. Un sorriso e un cenno di saluto, poi ciascuno torna a contemplare in silenzio la valle costellata di laghetti glaciali, le cime lontane: pietra, aria, acqua.
Patrizia sembra preoccupata. Le chiedo cosa succede.
Pochi minuti fa, per sbaglio, ha azzerato il pedometro. Rimaniamo entrambi in silenzio, la situazione è seria.
Lontano, in fondo alla valle, Il rifugio Wallon è strapieno. Il gruppo di belgi ha incredibilmente raggiunto le dimensioni di un esodo. In almeno cinquemila si sono impossessati dei sei lavandini del rifugio.
Compaiono anche l’amico del Madiran e l’anziano gestore del rifugio Respumoso: è venuto “a fare due passi”, adesso torna indietro.