Ma sei sicuro che siamo in Grecia? -dice Gaia all’uscita del minuscolo aeroporto di Ioannina. In effetti non ci accoglie il bianco accecante delle casette sospese fra l’azzurro del cielo e il blu del Mar Egeo: qui in Epiro per gli antichi Greci c’era invece l’ingresso nel mondo degli inferi. E’ nascosto nella nebbia di un bosco di pioppi, sotto una roccia dove il fiume Cocito si unisce all’Acheronte.
A monte del fiume dei morti, oltre la cittadina di Ioannina, si innalza la catena del Pindos. E noi andremo nella celebre gola di Vikos, fra le case di pietra che si trovano al di là delle montagne, nella regione che i Greci chiamano “Zagoria”.
Ioannina è una cittadina di centomila abitanti -uno strano miscuglio di macchine vecchie, marciapiedi rotti, case scalcinate e moderni ristoranti, bar e locali notturni animati dagli studenti dell’Università.
Passiamo dalla stazione degli autobus per informarci sugli orari di domani: il bus per Monodendri parte alle 5:30 antimeridiane. E’ il numero 43.
O il 30.
Oppure il 3.
Ma non preoccupatevi: tutto è chiaramente illustrato nei monitor della stazione. In Greco.
Moderatamente rassicurati ci avventuriamo nella cittadella. I minareti delle due moschee salgono dai vicoli stretti mentre il sole scende dietro le mura e si tuffa nel lago Pamvothida.
Nel diciottesimo secolo questo era il regno di Ali Pasha, “Il Leone di Ioannina”, che portò ricchezza e prosperità alla regione.
Lord Byron rimase affascinato dalla sua opulenza e dall’atmosfera orientale di intrigo e corruzione della sua corte.
L’impero Ottomano rimase invece meno impressionato dai tentativi di Ali di costruire uno stato indipendente: quando alle porte di Ioannina si presentarono 50.000 soldati del Sultano, gli alleati di Ali preferirono la salvezza alla lealtà.
La testa del Leone di Ioannina fu rapidamente spedita a Istanbul.
La sveglia suona spietata alle 4 del mattino. Attraversiamo le strade buie della città.
Coppie di anziani aspettano sulle panchine della stazione; autobus vanno e vengono; caratteri Greci compaiono e scompaiono dagli schermi, ma non c’è traccia del nostro autobus.
Veniamo indirizzati verso a un pullman vuoto e senza numero.
Dopo alcuni interminabili minuti compare l’autista con un piccolo cartello bianco in mano. C’è scritto: “Monodendri”.
Scendiamo dal bus appena prima dell’alba insieme a una manciata di turisti: Monodendri è uno dei più acessibili fra i villaggi di Zagoria.
Un enorme platano segna il centro della piazza principale, con il caratteristico pavimento e le case tutte di pietra; le lampade di un ristorante deserto proiettano una luce gialla su sedie e tavolini vuoti.
Due gatti ci scortano lungo il sentiero acciottolato che esce dal villaggio e si getta nella Gola di Vikos: profonda quasi 1000 metri e lunga 20 km, l’ente Greco per il turismo l’ha dichiarata il più grande canyon d’Europa. Veramente è il terzo, ma non glielo diciamo.
Il sole emerge dalla parete di pietra. Una ad una, le foglie degli alberi si accendono di rosso e oro al tocco dei suoi raggi. Ci immergiamo nella luce calda.
“Miao” dice il gatto: bisogna muoversi.
Il sentiero si srotola lungo il fondo del canyon fra immense pareti di roccia, il cielo in alto non è che un’azzurra striscia sottile.
“Miaooooo” dice il gatto: ci hanno accompagnato lungo il letto asciutto del torrente, attraverso ghiaioni e fra alberi coperti di muschio, fino al confine del loro territorio. E ora ci dicono di tornare indietro: è pericoloso procedere oltre.
Ma noi li salutiamo e avanziamo nell’ignoto.
Un anziano signore siede accanto a una donna sulla riva di una polla d’acqua. “Kalimera” gli diciamo: buongiorno. “Kalimera”, rispondono. Sono appena scesi dal villaggio di Vikos, e come noi sono diretti a Papingo: “ci vediamo al ristorante per cena” ci salutano mentre noi proseguiamo il cammino e loro il riposo.
Ci arrampichiamo fuori dalla gola fra pinnacoli di roccia e panorami di cime lontane. I villaggi gemelli di Mikro e Megalo Papingo compaiono in mezzo ai boschi.
L’ultimo tratto di salita è tutto sotto il sole: approdiamo stanchi e sudati all’unica strada asfaltata del villaggio, troppo stretta e tortuosa per i pullman turistici.
Il resto del villaggio è costruito in pietra secondo l’architettura tradizionale della regione, e stasera il cortile dell’alberghetto di Megalo Papingo è tutto per noi.
Dopo un meritato riposo usciamo per cena. I contrafforti verticali del monte Astraka si tingono di rosso in cima alla valle.
Un’antica signora, completamente vestita di nero, compare nel vuoto di un arco di pietra. Ci fa cenno con la mano “Entrate”, dice “habemus panem, habemus vinum”. Ci sta invitando a cena, direi… ma… in latino?
Decliniamo gentilmente e raggiungiamo il ristorante per una cena monumentale a base di formaggio fritto, pesce e i pomodori più saporiti del pianeta.