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Home Avventure Nelle foreste della Cambogia Nelle foreste della Cambogia – 2

Nelle Foreste della Cambogia - parte 2

Il calore aumenta di intensità mano a mano che ci addentriamo fra gli alberi. Ci fermiamo per rinfrescarci, mangiare un boccone e bagnarci testa e vestiti.
‘Io non penso di averne bisogno’ dice Tim guardandosi la camicia: è intrisa di una quantità di sudore difficile da descrivere.
Le nostre guide aprono la strada in mezzo al bambù a colpi di machete: ‘non lo toccate’ ci avvisa Johnny ‘è molto tagliente. E poi ci sono formiche, ragni e un sacco di altre cose poco amichevoli’.
‘Non ti preoccupare’ la voce di Tim emerge dai fondali della sua camicia ‘non c’è niente qui che sia neanche lontanamente pericoloso quanto quello che abbiamo in Australia’.

Il nostro primo accampamento è una minuscola radura vicino a una cascata.
‘Allora, chi sa come si tira su un’amaca?’dice Johnny mentre fa vedere come sistema la sua. Dopo alcuni minuti di caos sono tutte legate in qualche modo fra gli alberi in ogni possibile direzione.
Assicuriamo i cordini fluorescenti per segnare il sentiero per la toilette e l’area pranzo -già è difficile orientarsi di giorno, non vogliamo trovarci con 15 persone che girano a caso nella foresta di notte…
I ragazzi sono organizzatissimi: chi prepara la cena, chi ripulisce il campo, chi fa acqua e chi semplicemente si riposa in riva al fiume.

Il sole tramonta da qualche parte fuori della jungla, l’oscurità cala all’improvviso e ci troviamo seduti intorno al fuoco per mangiare l’immancabile riso bollito.

Il campo
Il campo

Dopo cena due delle nostre guide scambiano due parole con Johnny e svaniscono nella foresta. Guardo Johnny.
‘Non ti…’
‘Fermo lì. Non sono preoccupato’ lo interrompo ‘solo moderatamente curioso’.
‘Uh. Ok’ non sembra molto convinto. ‘Sono andati a prendere del miele.’
Miele?
Sì: dopo qualche minuto li vediamo ricomparire dall’oscurità con in mano un grosso pezzo di alveare.
‘Attenti a non farlo cadere, ricordate: tutto il cibo nella buca del cibo’ ci avvisa Johnny mentre i ragazzi si lanciano sull’inaspettato dessert.
‘Ops’ dice Ben osservando l’avvicinarsi di una interminabile colonna di formiche. Un ragno di dimensioni improbabili si aggiunge alla fila di interessati al miele caduto, suscitando un misto di panico e istinti omicidi nei ragazzi vicini.
Tim si sposta dal mio lato del fuoco, tenendo il suo miele ben lontano dall’azione.
‘Credevo che voi Australiani non vi lasciaste impressionare dai grossi ragni…’

‘Dormire in un’amaca è più facile di quello che pensi’ mi avevano spiegato qualche mese fa durante una sessione di preparazione a questo viaggio: ‘tutto quello che devi fare è sederti così e poi sdraiarti lungo la diagonale, così. L’amaca si irrigidisce e ti tiene dritto: guarda, puoi anche dormire su un fianco’.

Frottole. Sono sdraiato lungo la più perfetta delle diagonali, ma qualsiasi cosa faccia finisco sempre ammucchiato in fondo a questo perverso strumento di campeggio.

Ci svegliamo alle 6; Ari è ancora avviluppato nella sua amaca, arrotolato in una maniera che sfida ogni spiegazione fisica. Neanche lui deve aver trovato la diagonale magica.

Mi consolo con una tazza di caffè. Johnny mi osserva perplesso mentre incastro con attenzione meticolosa la mia fedele mocha fra le braci -ho fuso il manico nel mio ultimo trek, ma non ditelo a nessuno.

‘Vuoi assaggiare’? Gli chiedo ‘Ma attenzione, è caffè italiano. Molto forte’ aggiungo con immotivato orgoglio nazionale -anche perché il caffè l’ho comprato a Banlung e non ho la più pallida idea di come verrà.

Non aspettava altro: istantaneamente gli compaiono in mano due microscopiche tazzine ritagliate nel bambù. Condividiamo caffè, zucchero e risate finché è ora di rimettersi in cammino.

Camminando nella jungla
Camminando nella jungla

Siamo già sudati prima ancora di aver fatto il secondo passo. L’ormai famigerata camicia di Tim non si è asciugata durante la notte -probabilmente non si asciugherà mai, e i ragazzi hanno iniziato a scommettere quanto liquido è in grado di assorbire.

Una salita di 250 metri non è un’impresa escursionistica di cui fare gran vanto -ma considerando la pendenza, il peso degli zaini, il caldo assurdo e l’impatto psicologico su un gruppo che si aspettava 4 giorni di trek in pianura, ci concediamo un’eccezione.
Dopo una serie di pause per riprendere fiato, pause per bere, pause per fare pausa, raggiungiamo finalmente la vetta. Cioè: deduciamo di essere in vetta dal fatto che il terreno smette di salire -siamo sempre circondati da ogni lato dalla vegetazione impenetrabile.
Rinfrancati e pieni di orgoglio dopo “La Scalata”, ci addentriamo nella densa foresta primaria. Il cambiamento è visibile: gli alberi sono più grandi, gli arbusti scomparsi. L’aria è ferma e molto più scura. Procediamo in un silenzio innaturale per un gruppo di adolescenti, interrotto soltanto dagli ‘Ouch!’ di Caitlin che sbatte la testa contro un ramo più o meno ogni quindici minuti.
‘Perché non guardi in su, scema!’ le dice Kyra.
‘Si, buona idea. Così inciampo in una radice e mi ammazzo. No grazie, preferisco continuare a tirare testate agli alberi’.

Sembra di aver camminato per secoli, e al tempo stesso di non esserci mossi di un metro: riusciamo solo a vedere una confusione di alberi scuri e rami intorno a noi, caoticamente simili in tutte le direzioni -compreso verso l’alto.
Ma dobbiamo aver coperto la distanza prevista, perché prima di notte -cioè, quando la jungla passa da scura a molto scura- raggiungiamo il campo.

Notte al campo
Notte al campo

Dopo un’altra notte insonne trascorsa all’inutile ricerca della fantomatica diagonale, usciamo lentamente dalla foresta: il verde si fa più brillante, ritornano le macchie di bambù e Caitlin può finalmente sbattere la testa contro rami più piccoli.

Nella jungla tutto succede all’improvviso -almeno per me: non mi accorgo che siamo tornati al fiume finché gli ultimi alberi si aprono per rivelare una piccola spiaggia con le nostre canoe in paziente attesa.
Veniamo traghettati sull’altra sponda. A sera ci troviamo nel così detto “Avamposto”, una fattoria abbandonata dove stabiliamo il nostro ultimo campo su una piattaforma di legno coperta da un ampio tetto di paglia.
Accanto al campo c’è una grossa mitragliatrice, dimenticta e arrugginita -ma ancora minacciosamente puntata verso le colline al di là del fiume.

‘Noi veniamo di là, vero?’ chiedo a Johnny.
‘Si’ mi risponde ‘Abbiamo camminato da qesta parte. Dall’altra, laggiù in fondo’ mi dice indicando nella stessa direzione della mitragliatrice ‘c’è il Sentiero di Ho-Chi-Minh’.
Il sole sta tramontando, e nella luce che svanisce non è difficile immaginare bombardieri americani che scivolano sopra le colline.
‘Domani passeremo da Koah Piek’ dice Johnny ‘nel villaggio c’è ancora una fossa comune degli Khmer Rossi, e un frammento di bomba americana’.

La nostra ultima giornata di trek è una breve passeggiata di ritorno al fiume, e da lì al villaggio.
Stanotte ho trovato la fatidica diagonale -pochi amari minuti prima che suonasse la sveglia. Sto pensando di segnarla con un pennarello. Comunque, adesso posso finalmente dichiarare di essere riuscito a dormire in un’amaca.

Koah Piek è un piccolo villaggio in mezzo alle risaie. Johnny ci mostra le tradizionali case rialzate nelle quali le famiglie vivono al di sopra del bestiame.
Un grande edificio di cemento, dipinto di blu e bianco, occupa in maniera piuttosto incongruente il centro del villaggio: è la nuova scuola elementare. Mentre passiamo suona una campanella, i bambini escono gridando e si sparpagliano rumorosi intorno ai frammenti arrugginiti della bomba americana.

Ritorno al villaggio
Ritorno al villaggio

Un libro per continuare a viaggiare:

Terzani, “Fantasmi: dispacci dalla Cambogia”, TEA (2014): una raccolta di articoli scritti da Terzani negli anni precedenti e successivi al regime di Pol Pot.

L. Ung, “Per primo hanno ucciso mio padre”, Piemme (2017): la testimonianza di una bambina di Phnom Penh scampata alla follia degli Khmer Rossi.

D. Chandler, “Voices from S-21”, University of California Press (2000): la storia della scuola elementare di Phnom Phen diventata simbolo delle atrocità di Pol Pot.

D. Chandler, “A history of Cambodia”, Westview press (2007): breve ed esauriente storia della Cambogia dalla preistoria ai giorni d’oggi.

D. Halbertam, “The Best and the brightest”, Ballantine books (1993): uno dei migliori saggi sulla guerra in Vietnam e sulla politica USA degli anni ’60.

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